III domenica di Quaresima
Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego (I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, perché libererà dal laccio i miei piedi. Volgiti a me e abbi misericordia, perché sono solo e povero) – Sal 24,15-16 Vulg.L’antifona invita a tenere fisso lo sguardo sul Signore: è Lui che ci libera dai lacci di questo mondo. Le note più alte sono riservate alla parola evellet, quasi a disegnare il gesto di strappare una pianta dalle sue radici e portarla dalla terra al cielo. Evellere è molto più che liberare: indica proprio svellere dalle radici. Con grande chiarezza le letture di oggi ci fanno comprendere che Dio aveva liberato gli Israeliti dalla schiavitù dell’Egitto, ma il fascino di quella schiavitù era rimasto nel loro cuore e i loro piedi erano ancora radicati in quella terra: di fronte alla sete, il popolo – che pure aveva bevuto dal grande fiume e aveva attraversato il mare – mormorò contro Dio. Mosè, con lo stesso bastone con cui aveva percosso il Nilo, percosse la roccia e ne sgorgò acqua. La storia, però, narra che la “sete d’Egitto” non finì mai. Come non sarebbe mai finita la sete della donna samaritana, radicata ormai a un sesto marito. Ma incontrò Gesù, sull’orlo di un pozzo senza fondo e Gesù la guardò dentro e lei Gli aprì il cuore. Allora Gesù poté riversare in lei l’amore di Dio (cfr. Rm 5,5) che estinse quella sete. E la donna se ne partì, dimenticando persino quella brocca che le era stata sempre indispensabile. Ancor prima degli apostoli, la povera samaritana aveva imparato ad alzare gli occhi. Così aveva visto il campo che già biondeggiava (cfr. Gv 4,35).
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