XXXIII domenica per annum
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. (Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete ed io vi esaudirò, e vi libererò dalla schiavitù da tutti i luoghi.) – cfr. Ger 29,11.12.14. Vulg.
L’antifona della XXXIII domenica inizia con la solenne affermazione: «Dice il Signore». È una parola che sale alla corda di recita (fa) dal profondo e, nella prima frase, viene solennemente affermata tre volte dalla tristropha e dalla ripetizione dello stesso motivo melodico su dicit Dominus e cogitationes. Con una dolcissima discesa espressa dalla successione di climacus (a partenza dalle note do-si♭-la) che approdano alla clivis finale (sol-fa), il Signore dice che nutre «pensieri di pace e non di afflizione». La vita sembra contraddire palesemente tale affermazione, come pure quella successiva: «Voi mi invocherete e io vi esaudirò». Era esattamente quello che pensava il «servo malvagio e pigro» (Mt 25,26), che vedeva in Dio «un uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso» (Mt 25,24) e aveva basato il suo rapporto sulla paura (cfr. Mt 25,25). E Dio, ahinoi, non smentisce una simile proiezione: «Sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso» (Mt 25,26). Ma noi «non siamo nelle tenebre… e non dormiamo come gli altri» (1Ts 5,5-6). Ancora una tristropha dopo il si bequadro su invocabitis [invocherete] sottolinea la fermezza della fede. Alla luce della fede sappiamo che non è vero che “siamo nati per soffrire”, ma siamo nati per prendere parte alla gioia del nostro Signore (cfr. Mt 25,21). Solo Lui ha il potere di liberarci dalle trappole [captivitatem] di una religiosità distorta che spinge a nascondere i talenti in una buca. È la stessa religiosità che ci fa credere padroni di quei talenti. Ma il compito dei servi è soltanto quello di metterli a frutto (cfr. Mt 25,27). Come spenderli, spetta al Padrone.
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