O Radix Jesse (19 dicembre)
O Radix Jesse, qui stas in signum populórum, super quem continébunt reges os suum, quem gentes deprecabúntur: veni ad liberándum nos, jam noli tardáre.O Germoglio di Iesse, che ti innalzi come segno per i popoli (Isaia 11,10), tacciono davanti a te i re della terra (Isaia 52,15) e le nazioni ti invocano: vieni a liberarci, non tardare (Abacuc 2,3).
Commento all’antifona di padre Maurice Gilbert S.J.
Dopo Mosè e l’esodo, si passa adesso al messaggio dei profeti, specialmente a quello di Isaia. Infatti la maggior parte di questa antifona riprende Is 11,10: In die illa radix Jesse qui stat in signum populorum ipsum gentes deprecabuntur… (In quel giorno, il germoglio di Iesse, che si innalza come segno per i popoli, le nazioni invocheranno...).
Certo, il testo d’Isaia prospetta il messia davidico. Già l’apostolo Paolo, in Rm 15,12 cita Is 11,10, dove vede, da parte di Isaia, la promessa ora compiuta in Cristo. C’è, però, da notare che questa profezia ne inserisce al centro un’altra, che proviene da Is 52,15: il Servo sofferente, dopo la sua passione che lo aveva reso irriconoscibile, sarà esaltato e innalzato molto; allora le nazioni, che erano stupite del suo aspetto inglorioso, si meraviglieranno: super eum continebunt reges os suum (su di lui, i re chiuderanno la bocca). Questa profezia ripresa nella terza antifona intende l’esaltazione del Servo dopo le sofferenze subite.
È dunque importante capire che qui il mistero pasquale della Risurrezione di Cristo è chiaramente sottinteso.
Inoltre, come nelle due profezie isaiane, l’antifona parte dal discendente davidico, speranza d’Israele, per allargare l’orizzonte ai popoli, ai re della terra, alle nazioni. Siamo qui nella prospettiva dell’universalità dell’umanità; il cristianesimo è consapevole della sua vocazione universale.
Quanto alla domanda che conclude la strofa, benché l’espressione jam noli tardare: «non tardare», non si trovi tale e quale nella Vulgata, si tratta di un riferimento sicuro a una profezia di Abacuc. Il profeta aspetta come una sentinella l’oracolo del Signore; quando costui interviene, annuncia ad Abacuc che la visione promessa si realizzerà, anche se si farà aspettare. Nella versione greca detta Settanta, la seconda parte del versetto Ab 2,3b mette il soggetto al maschile, e questo cambiamento in confronto con il testo ebraico ha portato i cristiani a vedere in questa versione usata da loro una profezia messianica.
Per la tradizione giudaica, la visione del profeta ha già in ebraico una portata messianica (cfr Talmud babilonese, Sanhedrin, 97b); a fortiori per i cristiani, i quali, come Girolamo, seguono più letteralmente il testo ebraico: si moram fecerit exspecta illum, quia veniens veniet et non tardabit (se indugia, aspettalo, poiché certo verrà e non tarderà). Intesa sia dalla visione sia dal suo contenuto, cioè il Messia, questa profezia è stata ripresa, direttamente o meno, nel Nuovo Testamento in Ab 10,37 e nella 2Pt 3,9. Si capisce allora perché il testo di Ab 2,3b sia stato usato tradizionalmente nella liturgia cristiana dell’Avvento.
Certo, il testo d’Isaia prospetta il messia davidico. Già l’apostolo Paolo, in Rm 15,12 cita Is 11,10, dove vede, da parte di Isaia, la promessa ora compiuta in Cristo. C’è, però, da notare che questa profezia ne inserisce al centro un’altra, che proviene da Is 52,15: il Servo sofferente, dopo la sua passione che lo aveva reso irriconoscibile, sarà esaltato e innalzato molto; allora le nazioni, che erano stupite del suo aspetto inglorioso, si meraviglieranno: super eum continebunt reges os suum (su di lui, i re chiuderanno la bocca). Questa profezia ripresa nella terza antifona intende l’esaltazione del Servo dopo le sofferenze subite.
È dunque importante capire che qui il mistero pasquale della Risurrezione di Cristo è chiaramente sottinteso.
Inoltre, come nelle due profezie isaiane, l’antifona parte dal discendente davidico, speranza d’Israele, per allargare l’orizzonte ai popoli, ai re della terra, alle nazioni. Siamo qui nella prospettiva dell’universalità dell’umanità; il cristianesimo è consapevole della sua vocazione universale.
Quanto alla domanda che conclude la strofa, benché l’espressione jam noli tardare: «non tardare», non si trovi tale e quale nella Vulgata, si tratta di un riferimento sicuro a una profezia di Abacuc. Il profeta aspetta come una sentinella l’oracolo del Signore; quando costui interviene, annuncia ad Abacuc che la visione promessa si realizzerà, anche se si farà aspettare. Nella versione greca detta Settanta, la seconda parte del versetto Ab 2,3b mette il soggetto al maschile, e questo cambiamento in confronto con il testo ebraico ha portato i cristiani a vedere in questa versione usata da loro una profezia messianica.
Per la tradizione giudaica, la visione del profeta ha già in ebraico una portata messianica (cfr Talmud babilonese, Sanhedrin, 97b); a fortiori per i cristiani, i quali, come Girolamo, seguono più letteralmente il testo ebraico: si moram fecerit exspecta illum, quia veniens veniet et non tardabit (se indugia, aspettalo, poiché certo verrà e non tarderà). Intesa sia dalla visione sia dal suo contenuto, cioè il Messia, questa profezia è stata ripresa, direttamente o meno, nel Nuovo Testamento in Ab 10,37 e nella 2Pt 3,9. Si capisce allora perché il testo di Ab 2,3b sia stato usato tradizionalmente nella liturgia cristiana dell’Avvento.
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